#etica accademica
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Il "Peer Review": Il Sistema di Valutazione Scientifica che Garantisce Qualità e Affidabilità
Un processo essenziale per la credibilità della ricerca accademica e scientifica. Il “peer review”, o revisione tra pari, è un processo fondamentale nel mondo accademico e scientifico, utilizzato per valutare la qualità, l’affidabilità e la validità di articoli di ricerca prima della loro pubblicazione in riviste specializzate. Questo metodo garantisce che solo studi rigorosi e metodologicamente…
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Concorso per 1 ricercatore (toscana) SCUOLA SUPERIORE ''SANT'ANNA'' DI PISA
Author: http://www.concorsi.it Data : 2024-10-11 21:53:00 Dominio: http://www.concorsi.it Leggi la notizia su: Concorsi.it LEGGI TUTTO SCUOLA UNIVERSITARIA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA CONCORSO (Scad. 11-11-2024) Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato di durata triennale, GSD 11/PHIL-03 – Filosofia etica, per la Classe accademica di scienze sociali…
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Sundar Pichai è stato molto chiaro con la stampa: i sistemi di IA generativa sono destinati ad entrare nella vita personale, professionale e accademica di chiunque, diventando strumenti essenziali, e ciò è tanto positivo quanto preoccupante. Bisogna dunque “essere premurosi” e definire la seguente regola: deve essere la società a capire come procedere con i lavori nel settore, senza lasciare il processo decisionale esclusivamente alle aziende che lavorano per sviluppare tali soluzioni.
Dall’articolo "CEO Google come Elon Musk: 'Servono esperti di etica e filosofi per le IA'" di Francesco Santin
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Un altro esercizio di tiro a segno sulla croce rossa è (emblematicamente) polemizzare con Burioni, che al di fuori del suo ambito tecnico è una figura intellettualmente inesistente. Sullo slogan della "scienza non democratica" pesa un fraintendimento elementare, quello di chi scambia la scienza con il dato sperimentale, che è più o meno come scambiare la linguistica con l'alfabeto. La scienza è il complesso di istituzioni, contesti sociostorici, strumenti filosofici e attori individuali che estraggono, interpretano, filtrano, classificano e spiegano al pubblico i dati. Questo processo, sottoposto ovviamente a deformazioni di ogni tipo, è una forma epistocratica di democrazia, nel senso che il cosiddetto consenso scientifico è l'opinione comune pesata per rilevanza accademica degli esperti.
La fallibilità di questo consenso si manifesta nei cambiamenti kuhniani di paradigma. La scienza si autocorregge, ma il fatto che si autocorregga ha poco a che fare coi dati, e molto con l'arrivo di una nuova generazione di esperti che non ha fondato la propria carriera su una specifica interpretazione dei dati, anche questo un processo comune a tutte le istituzioni umane. La scienza progredisce un funerale alla volta, come vuole la massima (che è una semplificazione di un testo di Max Planck, per essere precisi).
Tutto questo per dire che la fiducia nella scienza fa il paio con la fiducia nel mercato, entrambe ispirate a principi trascendenti il fenomeno stesso (da una parte la presunta oggettività dello sguardo scientifico, dall'altra la mano invisibile), ed entrambe riformulazioni dell'antichissima fiducia nelle caste clericali, dotate di un mana, un'infallibilità che non appartiene all'istituzione per quel che è storicamente ma si realizza ex opere operato. Si tratta, in fondo, di nostalgia del padre, di qualcuno che ci salvi dalla vertigine della libertà. Perciò mi viene da sorridere quando intellettuali che teoricamente dovrebbero essere dalla mia parte, come Veneziani e Fusaro, parlano di abolizione del padre. La nostra società è patriarcale come mille anni fa, e forse anche di più: perché il cristianesimo garantiva una dimensione legittima di femminilizzazione (citofonare Nietzsche) attraverso la passività svirilizzata dei martiri, attraverso la mistica e il contatto non mediato col sovrannaturale. Adesso invece tutto è demandato a manifestazioni di trasgressione (come se fosse possibile trasgredire in una società post-etica) individuale, senza alcuna profondità politica. Il patriarcato è vivo e vegeto, si è solo travestito da drag queen.
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SEsiste una differenza sostanziale tra internet, l’infrastruttura, internet e il web 1.0 che è composta da una rete di pagine web, di blog e di bloggers, che erano stimolati a condividere, e la realtà sociale che troviamo oggi in rete, formata quasi esclusivamente da social, pochi e dominanti, schiaccianti strutturalmente e nelle regole, e da app e telefoni, e da una certa povertà intellettuale che tende al denominatore comune: facile semplice, condivisibile senza conflitti di mentalità.
Ma la grande differenza sta anche nel fatto che mentre internet e il web era fuoriuscito dagli ambienti universitari, e quindi era concepito come uno spazio aperto, libero, paritetico e di proprietà di tutti, al punto che internet era totalmente deregolata: non esistono policy di appartenenza o esclusione dalla rete -
I social sono stati creati da enti proprietari, grandi o diventati grandi economicamente, sono quindi come uno spazio loro, e uno strumento di business. Non ci sono reali obiettivi sociali, o di crescita, o di difesa del pensiero. Sicuramente, i social non sono cosa comune o pubblica, la proprietà lo rende evidente ogni volta che si violi anche la più piccola regola. Si può venire censurati, invitati a un cambio di contenuti, o ancche temporaneamente estromessi, o banditi.
Cosa l’utente voglia o faccia, non è che secondario agli obiettivi di business.
Se internet e il web 1.0 era una repubblica di cittadini con pari diritti, e quindi “democratica” by design, i social sono una dittatura illuminata, in cui uso degli strumenti e libertà di espressione (e ricchezza degli strumenti tecnici, ma questo è altro tema) dipendono da una volontà benevolente che può comunque in ogni momento decidere di censurarvi, e non deve rendere conta a nessuno di questo.
Questo riflette indubbiamente la mentalità geografica dominante da cui i social provengono e dove sono stati generati.
Internet è una infrastruttura non proprietaria, nata in USA che si è diffusa anche in europa, in ambienti accademici e tra tecnici e nerd, il cui prodotto più noto il WWW è stato “inventato” al LHC di Ginevra, con intenti chiaramente di diffondere e collegare la conoscenza.
Il www rifletteva in questo uno dei nessi della mentalità europea, ovvero che infrastrutture e servizi, e spazi di conversazione, sono pubblici, vanno orientati al bene comune, sono un patrimonio comune che va difeso e in cui nessuno può decidere per tutti.
Internet è una res publica, res di tutti e di nessuno. Una rete di pari che si controllano a vicenda. Le regole sono basate su una fairness di origine e matrice accademica ovvero che risale ai tempi in cuio su internet accedevano delle elitè fortemente strutturate ed “educate”. Si parlava non di regole ma di netiquette, di una etica persuasiva: puoi dire quello che vuoi, ma sotto la tua responsabilità e ogni opinione anche sgradevole ha il diritto di esistere. E ciò che succede su internet resta su internet.
In un campus ogni opinione può essere proposta e discussa, è l’essenza della liberta di opinione accademica. Interner rifletteva questo, era un campus virtuale.
Questo ha garantito per decenni una struttura piatta, socialmente inclusiva, parità di diritti, e nessuna autorità che decidesse per tutti. Anche la struttura tecnologica di internet riflette e favorisce questo.
I social sono invece stati il riflesso di quel quarto di mondo dove sono nati, il mondo e la mentalità di buisness americana: riflettono la mentalità capitalista e il diritto di proprietà di matrice economica statuintense, questo detto senza critica, e senza volermi addentrare in una disamina sulle differenze e opportunità dei diversi sistemi sociali ed economici, una cosa che sarebbe ttroppo estese e forse inutile dato che sul tema di dibatte da due secoli, e persponalità di rilievo più alto del mio sul piano economico, storico, politico ne hanno parlato e ne parlano ancora [Marx, Gramsci, Keynes, altro].
Il dibattito in EU, che è una consociazione politica e economica, formata da una federazione di stati collaboranti a un comune obiettivo economico e ad una stabilità sociale comune, è ancora ampiamente in corso. Non basti citare ad es l’opposizione tedesca al concetto di debito europeo comune, e di stampare moneta, e le politiche della banca centrale sotto la direzione Draghi che ha introdotto modi nuovi con il quantitative easing di gestire la perequazione sociale tra stati deboli e forti.
Il dibatitto socio politico negli Stati Uniti è decisamente meno variegato sulla proprietà i concetti di bene comune e di perequazione dei mezzi di sussistenza, si consideri ad esempio che la salute non è considerato un bene comune dalla maggior parte degli americani, e solo dall’introduzione dell’OBAMA care nel 2008 , il sistema garantisce una assicurazione sanitaria pubblica, una forma anche se debole, di supporto a chi non ha i mezzi economici per pagare le spese sanitarie che va detto sono rilevanti per il cittadino.
Un trapianto d’organi costa centinaia di migliaia di euro, ricorrere a un ambulanza costa qualche migliaio di euro, e così via. []
L’America ha investito 700 milioni di euro in spese di difesa lo scorso anno, aumentandole dai 600 degli anno precedente, ma spende meno di un decimo per l’obama care [fonte ]
Negli Stati Uniti ad es il proprietario di una casa può in qualsiasi momento sfrattare un inquilino, o alzare il canone di affitto, concetti come equo canone, e diritto di abitazione che in EU sono gfeneralmete a favore dell’inquilino che del proprietario, sono totalmente alieni. Se la casa è mia, ho sempre il diritto di sfrattarti, questo il principio alla base.
In questo contesto sociale è evidente il concetto di proprietà e di diritti del proprietario sui beni propri e di quel che può fare sul “suo territorio”, sono molto forti e contrastano anche il concetto di bene comune, almeno nel senso inteso in Europa
I social sono un business per i loro proprietari, e la proprietà indirizza mezzi e contenuti verso obiettivi che siano perlomeno non ostativi, non contrari, al modello di busines che peraltro è abbastanza elementare ma efficace.
Va anche sottolineato che - peraltro e in modo singolare - i contenuti dei social, che sono la ragione principale che attira utenti, sono creati dai singoli individui che sono parte del sistema ma non sono proprietari e quindi non decidono delle policy comuni dei social. Gli abitanti dei social, e questo è il primo riferimento singolare che possiamo evidenziare, producono ma non godono di diritti economici, in un certo senso potremmo facilmente dire che “lavorano” gratuitamente per i social .
“Abitare facebook”, significa lavorare gratuitamente per la proprietà senza compenso o perlomeno aiutare la proprietà a diventare ricca, senza godere minimamente dei benefici economici di cui la proprietà gode.
Si pone un chiaro parallelo con il concetto sociale di proprietà dei mezzi di produzione già storicamente espressa nel ‘800 da economisti e sociologi di varia estrazione socialista. La differenza è che l’economia dell’800 era basata su mezzi di prod uzione tangibili, come le catene di montaggio, mentre i mezzi di produzione dei social sono intangibili, virtuali, risiedono su server e computer.
Questa differenza sembra incantare una parte della popolazione, se non si vedono non esistono, sembra dire.
Ma il denaro prodotto da questi mezzi è reale e enorme come entità.
L’industria dei social produce più entrate del più grande produttore di software al mondo, che già hanno un fatturato superiore a qualsiasi alto settore economico. Più dell’energia [dati], più dello spazio, più delle spese di uno stato, più delle spese della difesa americana
Microsoft fattura più del PIL dell’Irlanda.
Facebook fattura più di tre volte l’intero fatturato di Microsoft. E in fondo offre molto meno.
Le egonets
Cosa c’entra questa premessa, giustamente chiederà qualcuno, con il concetto di potere, di demagogia e di controllo dell’informazione. Ammesso che esista un vero obiettivo di controllo dell’informazione sui social, un controllo consapevole e diretto, per fini politici, o demagogici, o anti repubblicani o anti democratici.
I social non possono essere controllati come la TV o la Radio.
La TV è composta da alcuni grandi attori, proprietari o pubblici, la politica è in grado di determinare coi suoi rapporti indirizzi e contenuti, anche solo attraverso una forma di suasion continua.
Si è creato un rapporto tra TV e politica ufficiale, politica dei partiti e dei parlamenti, che è nota ai più. I giornalisti criticano il potere o il governo, ma sempre in un ottica di favorire questo o quell’altra opinione opposta ma di personalità di spicco di questo o quel partito. Le ragioni sono ovvie, si fa carriera nel giornalismo, specie nel giornalismo delle TV pubbliche, se si piace a qualche esponente di peso di questo o quel partito.
Paradossalmente però questo sistema garantisce che almeno una parte dell’opposizione abbia voce, dato che avendo accesso a TV, Giornali e Radio e posiziona nei posti chiave quei giornalisti che si sono espressi a loro favore.
La gente? La gente non è rappresentata in questo meccanismo di potere, ma anche di equilibrio delle parti, un esempio di pesi e contrappesi che la democrazia riesce a controllare, almeno nelle sue punte più pericolose, la più pericolosa delle quali per una repubblica democratica è sicuramente perdere la libertà e diventare una dittatura.
A suo modo questo meccanismo ha garantito la difesa democratica.
Laddove l’opposizione non ha accesso a TV, Giornali e Radio, il sistema è dittatoriale o come piace dire oggi “autocratico”.
Abbiamo sotto gli occhi noi Europei come in Russia la Stampa, la TV possano esprimere solo l’opinione dell’autocrate dominante. E come questo abbia portato una invasione ingiustificabile e scellerata con centinaia di migliaia di morti su entrambi i fronti, e a una crisi internazionale con evidenti rischi di un conflitto nucleare.
La società moderna, globalizzata, non può più permettersi le dittature.
Quando Roma da repubblica si è trasformata in un impero retto da un imperatore he concentrava quasi tutti i poteri repubblicani su di sé, la società Cinese non è stata colpita, o quella Giapponese, o quella Tibetana, e neanche quella Indiana, o quella degli Inuit, sicuramente non quella Azteca o le popolazioni amerinde.
Per quanto Roma fosse potente, estesa e organizzata, la società non era globale.
La società di oggi consente di trasferire mezzi e beni ovunque: l’effetto farfalla è in agguato con conseguenze disastrose per tutti.
Non possiamo permetterci di inquinare oggi: quello che uso come carburante della mia auto, benzina o elettricità, o che butto nella spazzatura, possiede effetti a lungo termine che sommati mi ritorneranno con indietro negativamente.
La società moderna, essendo globalizzata e economicamente interdipendente, non può più permettersi le dittature né le guerre.
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La tesi di due professori: «L'eutanasia è un guadagno»
Legalizzare l’eutanasia? Un vero affare per i conti pubblici e non solo, perché così si assecondano le istanze di chi vuole andarsene, si risparmiano quattrini e si favorisce una maggiore disponibilità di organi per i trapianti. Questa l'opinione che ormai si diffonde nelle accademie.
Giuliano Guzzo (15-03-2020)
Legalizzare l’eutanasia? Un vero affare per i conti pubblici e non solo, perché così si assecondano le istanze di chi vuole andarsene, si risparmiano quattrini e si favorisce una maggiore disponibilità di organi per i trapianti. Esposta in modo più vellutato, ovvio, ma è questa la tesi di fondo che due studiosi, David Shaw dell’Università di Basilea, in Svizzera, e Alec Morton, dell’Università di Strathclyde, nel Regno Unito, hanno messo nero su bianco nel loro recente articolo apparso su Clinical Ethics, trimestrale accademico centrato sui temi di etica medica. Che le cose stiano in questi termini è provato fin dal titolo dell’intervento di Shaw e Morton, eloquentemente chiamato «Counting the cost of denying assisted dying».
In estrema sintesi, i due studiosi articolano il loro ragionamento su tre versanti. Il primo è quello secondo cui la morte on demand è cosa buona e giusta perché consente ai pazienti consenzienti favorevoli di evitare inutili sofferenze; il secondo si basa sulla considerazione secondo cui le risorse economiche rese disponibili dalla «dolce morte» possono essere utilizzate per allungare la vita a chi desidera invece vivere, migliorando l’offerta del sistema sanitario; il terzo aspetto messo in evidenza da Shaw e Morton, invece, riguarda la già ricordata disponibilità di organi per i trapianti, che determinerebbe notevoli vantaggi per i beneficiari degli stessi.
«Il nostro documento», concludono i due accademici, «mostra quindi come in generale opporsi alla morte assistita determini grandi costi sia per i pazienti che desiderano morire, sia per quelli che invece desiderano vivere». Ora, che cosa c’è che non va in un simile argomentare? Tantissimi aspetti, evidentemente. Tanto per cominciare - memori dell’andreottiano «a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina» - non possiamo non notare come tale articolo sia stato pubblicato il 10 marzo, quindi in piena emergenza planetaria da coronavirus.
Ma al di là di questo, il ragionamento di Shaw e Morton è da respingere in toto non tanto e non solo per le conclusioni cui perviene, né per i suoi comunque discutibilissimi argomenti, ma proprio per il suo impianto generale. Ci si riferisce al fatto che, nel momento in cui si parla di assistenza ai malati – gravi o meno che siano -, e si inizia a parlare di «costi», significa che si è già posizionato il proprio pensiero in una cultura di morte; si è cioè già sacrificata l’antropologia sull’altare dell’economia, ribaltando l’ordine prioritario delle cose. Come se i conti pubblici venissero prima del diritto alla cura, e non viceversa. Il che è chiaramente inaccettabile.
Il dato allarmante è però che quello apparso su Clinical Ethics non rappresenta una novità assoluta, essendo in questi anni già stati pubblicati interventi simili, se non perfino più allarmanti. Pensiamo ad uno studio uscito nel 2017 sul Canadian Medical Association Journal con il quale gli autori stimavano in 138 milioni di dollari annui il risparmio cui, a regime, potrebbe portare l’eutanasia. Sempre in Canada, nel gennaio scorso, un intervento apparso su Ottawa Citizen affermava chiaramente che «gli abitanti dell’Ontario che optano per l’assistenza medica al suicidio (MAiD) stanno salvando o migliorando sempre di più la vita degli altri, includendo anche la donazione di organi e tessuti nelle loro ultime volontà».
David Shaw e Alec Morton, con il loro articolo, non hanno insomma fatto che conferire una veste accademica ad un degrado antropologico già in corso, promuovendo una «cultura dello scarto» che, allo sguardo umano di accoglienza nei confronti della vita fragile, preferisce il mero calcolo. Ne consegue come, in questo modo, ogni malato sia ridotto ad un numero ed ogni posto letto libero ad un macabro risparmio economico e ad una altrettanto inquietante disponibilità di «pezzi di ricambio». Uno scenario da incubo che evidentemente non i cattolici, ma chiunque abbia a cuore il diritto naturale e il più elementare senso di umanità è chiamato, senza tentennamenti, a contrastare.
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Le premesse del Novecento. Dal postimpressionismo al Novecento. Le secessioni di Monaco, Berlino e Vienna
Le premesse del Novecento
Dal postimpressionismo al Novecento
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Paul Cézanne. La montagne Saint-Victoire et le Chateau Noir. 1904-1906
Il Novecento artistico si apre con un profondo conflitto. Erano venute meno all'arte visiva delle caratteristiche che l'avevano distinta per millenni: la necessità di celebrare la storia e di porsi come supporto alla narrazione, assorbite dalla fotografia e dal cinema di carattere documentario; la necessità di porsi come elemento educativo, visto che l'uomo occidentale si avviava a non essere più prevalentemente analfabeta; la spinta alla decorazione, avviata da stoffe e manufatti artigianali. Si perdeva così la maggior parte dei motivi per cui l'arte era stata, eteronoma, cioè dipendente da altre discipline o da esigenze che non avevano a che fare con essa, e si sviluppava l'idea di art pour l'art, 'arte per l'arte', cioè di ambito disciplinare in piena autonomia a cui veniva chiesto solamente di esprimere senso. L'arte del Novecento diventa un campo di autonomia del pensiero. Essa non è tenuta a rispondere ad alcuna esigenza esterna a se stessa, almeno in quei Paesi nei quali non è stata imbrigliata da diktat autoritaristici di varia natura. Ma eteronomia e autonomia continueranno a incrociarsi per tutto il secolo, dal momento che l'impegno politico e didattico è spesso tornato in auge non soltanto nei Paesi autoritaristici, ma anche laddove l'artista si è sentito vincolato a una spinta etica che gli imponesse un rapporto con il sociale. Una visione fortemente autonomistica dell'arte è incarnata da Paul Cézanne. L'artista francese è da molti considerato il padre della pittura moderna.Egli passò gran parte della sua vita a dipingere la montagna Saint-Victoire nei pressi di Aix-en-Provence, nel sud della Francia. Cézanne cercò di fissare sulla tela il suo aspro profilo da diverse prospettive. Il massiccio montuoso che domina la pianura sottostante viene dipinto attraverso una scomposizione geometrica mediante ampie pennellate policrome. A questa scomposizione faranno riferimento Picasso e Braque per inventare il Cubismo, primo passo verso l'astrazione geometrica. Il quadro cessava di essere una riproduzione illusionistica della realtà per diventare un oggetto regolato da leggi proprie come il ritmo delle forme e l'armonia dei colori.
Le secessioni di Monaco, Berlino e Vienna
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Gustav Klimt. La lotta di Teseo con il Minotauro, copertina di Ver Sacrum per la prima esposizione della Secessione, 1898.
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Joseph Maria Olbrich, manifesto per la seconda esposizione della Secessione, 1898.
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Koloman Moser, Manifesto per la XIII esposizione della Secessione, 1902.
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Joseph Maria Olbrich, Padiglione della Secessione Viennese, 1898-1999
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Gistav Klimt. Fregio di Beethoven. 1902
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Vienna. veduta interna del Padiglione della Secessione, sala del Fregio di Beethoven.
Benché la Francia abbia svolto un ruolo decisivo fino a tutta la prima metà del Novecento, la Mitteleuropa diede alla storia dell'arte un contributo notevole. Momenti fondamentali di questa maturazione furono le Secessioni, movimenti così chiamati per designare la volontà degli artisti che vi partecipavano di rompere con la cultura accademica tradizionale e di creare un'alternativa alle strutture espositive ufficiali. La prima a venire fondata nel, nel 1892, fu la Secessione di Monaco guidata da Franz von Stuck (Tettenweis 1863-Tetschen 1928). Il tratto saliente della sua personalità fu peraltro l'essere un grande organizzatore culturale, fondatore nella sua città di un'Accademia da cui passarono personaggi come Klimt e Kandinskij. Una scuola in cui si legavano strettamente belle arti, decorazione, architettura e filosofia, avrebbe fatto da modello anche per il Bauhaus.
#AnnalisaLanci SamuelTheis SamuelTheisSchool avanguardiedelnovecento arte cultura#novecento storia cultura luce lucetracieloeterra buioeluce buioelucetracieloeterra artepittorica drawing artefigurativa#PaulCézanne GustavKlimt JosephMariaOlbrich KolomanMoser Francia Parigi Monaco Berlino Vienna
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Un pensiero errante nel flusso della storia
Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.
Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra.
E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute.
Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.
FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.
È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito.
Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.
TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.
CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.
SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.
È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.
BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.
Benedetto Vecchi
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L’epopea di “Pulp Libri”: quando il romanzo era rock. Francesco Consiglio dialoga con Fabio Zucchella e Umberto Rossi
La parola scritta tracima, inonda il web, ci fa affogare dentro fiumi di parole, migliaia di blog letterari, milioni di utenti social che scrivono, scrivono, scrivono. Tutti scrivono e l’editoria è in crisi. Sempre meno gente legge i giornali cartacei: gente anziana o di età matura. E quanto alle riviste letterarie, chi si ricorda di essersi recato in edicola a comprarne una? Credetemi, siamo in pochi, anche perché quel tipo di riviste non ha mai potuto godere di una distribuzione capillare. Ieri, all’edicola sotto casa, ho contato sedici riviste di gossip e due letterarie: L’indice dei Libri e La Lettura, la testata culturale del Corriere della Sera. Anche la rivista Poesia, fondata nel 1988 da Nicola Crocetti (80 anni questo mese), abbandona le edicole. Finita sotto il controllo della Feltrinelli, verrà distribuita nelle librerie.
Ciò significa che di letteratura si scrive poco? Nient’affatto. I migranti della scrittura hanno trovato i porti aperti del web e sono sbarcati a frotte: giornalisti licenziati o in cassa integrazione, critici senza lavoro, poeti senza lettori, aspiranti scrittori rifiutati perfino dalla Pizza&Fichi Editrice, ma anche tanti appassionati (mi ci metto anch’io, scrittore perennemente in cerca di uno ius soli letterario). Il web accoglie tutti, viva il web!
Oggi per Pangea ho intervistato Fabio Zucchella, caporedattore di una mitica rivista letteraria, Pulp Libri, e Umberto Rossi, uno degli articolisti più attivi e colti della redazione.
Pulp Libri apparve in edicola nell’aprile 1996, nata come inserto di Rumore, una delle più importanti riviste italiane di cultura musicale, e i suoi primi collaboratori provenivano dal mondo dei critici e degli appassionati del rock e della musica alternativa. Fin dalla grafica, Pulp Libri era un unicum, almeno in Italia, poiché richiamava alla mente riviste statunitensi di letteratura popolare che trattavano di fantascienza, racconti polizieschi, western, guerra e splatter. Tuttavia, non fu mai univocamente dedicata al genere pulp, ma, numero dopo numero, provò a indagare l’intero fenomeno della scrittura, dal classico al fumetto, dalle canzoni d’autore alle sceneggiature cinematografiche.
Marco Lanterna, ne Il caleidoscopio infelice. Note sulla letteratura di fine libro, ha scritto che Pulp Libri si connotava per “l’assolutezza critica (cioè l’assenza di calcolo o tornaconto), l’anarchia metodologica, il convincimento che si debba combattere per l’idea, anziché lasciar perdere secondo comode nenie fataliste, fosse solo per una questione di stile, di condotta, di etica”.
La versione cartacea ha cessato di esistere con il numero 104, nel luglio del 2013, dopo 17 anni di uscite bimestrali regolari. Oggi è pubblicata on line (www.pulplibri.it).
Pulp Fiction è un film del 1994 diretto da Quentin Tarantino. Pulp Libri nasce nel 1996. Suppongo che il titolo sia un omaggio al regista statunitense…
Zucchella: No, no. Quel nome non è stato un omaggio in particolare a Tarantino.
Ops, senti il glu glu dell’intervistatore? Colpito e affondato. Vorrei però capire se la rivista mirava a spingere scrittori legati a quel tipo di poetica comunque legata a Tarantino: storie sensazionali con venature grottesche, scrittura epidermica, un forte carattere di divertissement citazionistico.
Zucchella: Da lettore accanito dei Gialli Mondadori o di Urania, da parecchio tempo sapevo benissimo cosa fosse la vera pulp fiction, e il citazionismo postmoderno l’avevo già metabolizzato tramite Barthelme o Barth. Tuttavia, ci piaceva l’idea della “polpa della letteratura” da addentare e da gustare anche cruda, grezza (raw power…), quindi senza particolari mediazioni paludate. Da lettori (certo, un po’ specializzati) per lettori. Volevamo parlare degli autori che ci piacevano, all’epoca spesso dimenticati dall’editoria, degli eterodossi, dei cani sciolti, di quelli confinati nel ghetto delle riviste da edicola, perché pensavamo che in mezzo a quella cosiddetta spazzatura ci fossero cose molto interessanti. Per questo ci accusarono anche di snobismo.
Rossi: Spesso mi chiedevano per quale rivista scrivessi, e quando rispondevo Pulp Libri qualcuno storceva la bocca e rispondeva: “Ma a me non piace il Pulp!”, ovviamente pensando a Tarantino. In realtà la rivista parlava di tutto e il contrario di tutto. È vero che andavamo a trattare gli scrittori trascurati o ignorati o dimenticati sia dall’editoria che dalle pagine culturali dei grandi quotidiani, che già allora correvano appresso alle mode o erano impegnati in scambi di favori. Scrissi due articoli piuttosto sostanziosi su Steve Erickson e John Hawkes, che non sono mai stati autori di moda. E poi c’era sempre l’attenzione per le piccole, anche piccolissime case editrici, che per questo ci si erano affezionate. E poi in ogni numero c’era la rubrica di Renzo Paris che rileggeva i classici; non ci facevamo scappare neanche quelli…
Molti autori che scrivevano per Rumore, cominciarono a scrivere recensioni librarie con lo stile e l’approccio con il quale scrivevano quelle dei dischi. Il target di riferimento erano gli appassionati di rock che occasionalmente leggevano romanzi?
Zucchella: L’idea fu dell’editore di Rumore (e prima ancora di Rockerilla), Claudio Sorge, che mise in piedi una piccola redazione guidata da Claudio Galuzzi e coadiuvata inizialmente da me e da Marco Denti. Da tempo tutti, a vario titolo, scrivevamo di musica, avevamo un passato più o meno anche punk. Sapevamo che il lettore di Rumore sicuramente leggeva romanzi e guardava film: così provammo per un paio di numeri, se non ricordo male, con un inserto di libri e l’esperimento ebbe molto successo. Le cose partirono così. Dopo un paio di anni purtroppo Galuzzi venne improvvisamente a mancare, e il timone passò in mano al sottoscritto. In seguito la redazione comprese Claudia Bonadonna e Marco Philopat. L’approccio diciamo così ‘pop’ era complessivo, quindi riguardava anche il progetto grafico, realizzato da Giacomo Spazio. Poi naturalmente con il passare degli anni la rivista è cambiata (si è evoluta?), ma senza mai perdere di vista la sua natura essenzialmente “pratica”: un bimestrale da edicola che potesse fornire una guida ragionata e affidabile ai libri, a certi libri, cercando di presentare autori o filoni che ritenevo interessanti.
Rossi: Devo aggiungere che la rivista s’era fatta conoscere. S’era fatta un nome. Nel periodo in cui la versione a stampa non esisteva più e quella online ancora non era stata attivata mi capitava ogni tanto di incontrare persone, fisicamente o su Facebook, che dopo un po’, quando mi facevo sfuggire che facevo il critico letterario, mi chiedevano dubbiosi: ‘Ma non sarai mica quell’Umberto Rossi di Pulp?’. Mi resi conto allora che le nostre cose erano lette, e con attenzione. Pensa che ci sono diversi affezionati lettori che hanno la serie completa della rivista, e altri aficionados che, nel periodo in cui feci le funzioni di caporedattore, ci scrivevano per chiederci dove potevano trovare i numeri che gli mancavano. Quando con Gallo facemmo partire la pagina Facebook di Pulp che poi si sarebbe trasformata nella versione online attualmente in attività, non faticammo affatto a convincere gli uffici stampa a mandarci le copie per le recensioni. Erano tutti contentissimi che la rivista fosse tornata. E tutti la conoscevano. Tra gli addetti stampa Pulp Libri era una presenza familiare e tutto sommato rispettata. Specialmente negli uffici stampa della piccola editoria.
Una giovane redazione è un crocevia di speranze, illusioni, utopie e voglia di emergere. Ricordi qualche nome importante che ha scritto su Pulp e successivamente si è affermato come scrittore e come giornalista?
Zucchella: ‘Giovane’ non più di tanto, visto che quasi tutti avevamo superato abbondantemente la trentina. Per quel che riguarda speranze etc, non ti saprei dire: quasi nessuno di noi era un professionista; hanno collaborato soprattutto lettori, certo molto forti e un po’ ‘particolari’, che nella vita facevano altre cose: insegnanti, medici, fotografi, bibliotecari, traduttori, librai, pubblicitari, ricercatori universitari. Inevitabilmente non sono mancati personaggi (pochissimi, per fortuna) in cerca di visibilità e di appigli per costruirsi una carriera, ma sono stati più o meno cordialmente messi alla porta. Tra i collaboratori ci sono stati anche dei professionisti, con i quali c’erano (e ci sono) rapporti personali di stima: ad esempio Severino Cesari, Giuseppe Culicchia, Valerio Evangelisti, Paco Ignacio Taibo, Paul Virilio, Carlo Lucarelli, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa sono i primi che mi vengono in mente. Roberto Saviano, il Saviano pre-Gomorra, è stato un collaboratore molto presente e propositivo.
Rossi: Alla lista di mestieri elencati da Fabio andrebbero aggiunti anche un dirigente della sanità regionale e un tecnico di una ASL. Era un’umanità assai variegata quella che collaborava, anche se guardiamo solamente a chi scrisse per la rivista per anni, e non occasionalmente. Volendo riassumere, i collaboratori di Pulp si dividevano grosso modo in quattro gruppi: c’erano gli scrittori e i poeti; c’erano gli operatori dell’editoria (traduttori, editor, talent scout, etc.); c’erano quelli, come me e altri, di formazione accademica, con una laurea in lettere o lingue e letterature straniere in tasca; e c’erano i lettori forti se non fortissimi. E per me proprio la compresenza di queste tipologie così differenziate di recensori faceva della rivista qualcosa di unico.
Un vostro collaboratore mi ha detto: “Se anche massacravi un libro, ma argomentando la tua valutazione negativa, Zucchella non si faceva problemi a pubblicarla. Mai successo che un pezzo venisse respinto perché si osava criticare qualche nome illustre”. Eravate così fuori dal giro da non temere nessuno?
Zucchella: Sinceramente la questione di essere o meno nel giro – o di volerci entrare – non si è mai posta, almeno per il sottoscritto e per molti dei collaboratori. La stroncatura di per sé non mi interessava più di tanto, alla fin fine preferivo usare quello spazio per recensire un buon libro (o che comunque ritenevo tale). Ovviamente la rivista non era così ingenua né sprovveduta, certe storture del sistema erano un po’ sotto gli occhi di tutti, anche degli involontari addetti ai lavori come noi (ad esempio, credo che l’unica recensione negativa a un libro di Baricco la si poté leggere sul New York Times, a firma di Nick Tosches). Per qualche anno sulla rivista c’è stata una seguitissima rubrica intitolata “I ritratti dell’editoria italiana”. Daniele Brolli è sempre stato particolarmente lucido – o feroce, a seconda dei punti di vista – nel descrivere certi tic ‘culturali’, un certo mondo (o demi-monde) popolato di editori, agenti, autori, giornalisti, editor. Naturalmente i suoi “Ritratti” hanno causato problemi, sia a lui che a me. Ma era inevitabile.
Rossi: Di Brolli mi piace ricordare la sua serie di elzeviri sulla Pivano. Come ha detto Fabio, feroci. E secondo me, tutto sommato, giustamente. Comunque, se uno va a leggere un numero scelto a caso di Pulp Libri scoprirà che di stroncature non ne uscivano poi molte. Si cercava sempre di valorizzare il libro per quello che valeva; non si sparava il cannone per antipatie o per guerra di bande, come capita altrove. Diciamo anche che, dando spazio a chi veniva deliberatamente ignorato dalle pagine culturali e dalle rubriche mediatiche monopolizzate dalle grandi case editrici, di fatto operavamo, implicitamente, una critica all’andazzo del sistema. Questo non va trascurato.
Con il gran numero, sempre crescente, di book influencer, le miriadi di blog e un accesso sempre più facile ai palcoscenici del web, scrivere recensioni librarie è diventato un campo minato. Se stronchi un autore mezzo conosciuto, i suoi aficionados ti scatenano addosso una shit storm.
Zucchella: Da questo punto di vista seguo poco il web, e spesso vedo cose che eufemisticamente non mi piacciono granché. Di ciò di cui mi parli non so praticamente nulla – anche se mi pare il corrispettivo, ingigantito, di quello che accadeva vent’anni fa. Presumo sia l’inevitabile corollario dell’information overload connaturato alla rete, e della sua accessibilità.
Rossi: Quando facemmo ripartire Pulp Libri in forma digitale nell’estate del 2017 io mi misi d’impegno a contattare i vecchi collaboratori. M’ero segnato i nomi dei recensori su un quaderno, prendendoli da vecchi numeri della rivista, e li cercai caparbiamente con Google. Alcuni accettarono di tornare a scrivere e ancora scrivono per la rivista online; altri avevano mollato completamente libri ed editoria, per cui declinarono. Qualcuno, come Fabio Donalisio, lavorava per un’altra rivista. Alcuni mi dissero che ormai s’erano fatti il blog, che le case editrici i libri glieli mandavano comunque per le recensioni, e grazie per averli chiamati. Ecco, questo dei blog è stato il grande cambiamento, e non sempre da disprezzare. Ci sono blog validi, come ad esempio quello di Tommaso Pincio. Poi ci sono gli influencer: quelli che postano su Instagram la foto del libro con una composizione più o meno artistica intorno. E non siamo neanche sicuri che l’abbiano letto davvero. Tutte queste modalità nuove di fare critica (sempre che critica si possa chiamare, e non sia semplicemente pubblicità fai-da-te) hanno cambiato il quadro della situazione. Non è solo questione di essere attaccati dai tifosi del dato scrittore se lo valuti negativamente, o dai seguaci del blogger se contesti qualche sua esternazione; il problema è che ora c’è una grossa concorrenza derivante da questi nuovi canali di comunicazione, che in certi casi sono tenuti in gran considerazione dagli uffici stampa…
Tra tanti giovani, c’era Renzo Paris; che a tutti gli effetti potremmo definire il Grande Vecchio di Pulp. Come c’era finito?
Zucchella: Paris fu un contatto di Galuzzi, se non ricordo male. Obiettivo della sua rubrica (“Il tempo ritrovato”) era quello di togliere un po’ di polvere dai Sepolcri Imbiancati della Letteratura, di far rivivere l’attualità di certi classici.
Rossi: Fu Renzo a dirmi, un paio d’anni fa, che su Pulp Libri si recensivano i libri come fossero dischi. Diciamo che lui costituiva un contrappeso allo stile talvolta dadaista e talvolta rockettaro, di alcuni recensori. Come ha detto giustamente Fabio, lui rileggeva i classici. Ma non solo. All’inizio della collaborazione aveva destato interesse un libro che Renzo aveva scritto allora dove cercava di fare una panoramica della letteratura italiana del 2000, nel quale aveva trattato anche nomi e tendenze nuove. Insomma, Renzo teneva d’occhio anche i giovani leoni. E devo dire di aver letto ben pochi articoli su Houllebecq come quello che Renzo fece uscire su Pulp. La classe non è acqua.
Secondo te avrebbe senso oggi un ritorno di Pulp in versione cartacea?
Zucchella: Le condizioni sono drasticamente cambiate rispetto a 25 anni fa, com’è ovvio, sotto tutti i punti di vista. Cambiate molto in peggio, se possibile. Comunque penso di sì, avrebbe un senso.
Rossi: La vedo difficile. Stanno chiudendo le edicole. Parafrasando Bianciardi, la vita è agra per tutte le riviste. Per me la via giusta è quella della rivista online, magari gestita in modo più adeguato ai tempi. Pulp Libri sul web avrebbe ancora molto da dire e da fare, e per questo spero che continui a vivere. Ma per farlo deve giocare meglio la partita sui social, che piaccia o non piaccia sono uno spazio che va presidiato. Mi auguro che si comprenda questo.
Francesco Consiglio
L'articolo L’epopea di “Pulp Libri”: quando il romanzo era rock. Francesco Consiglio dialoga con Fabio Zucchella e Umberto Rossi proviene da Pangea.
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